Zdenek Zeman nella letteratura: da Narciso a Zarathustra

Anarchico, visionario e talvolta incompreso: Zdenek Zeman in un insolito ed equivoco confronto tra letteratura e musica.

'

Fari su Nicosia: AEK Larnaca - APOEL

Inauguriamo la nostra rubrica a cura del nuovo membro della redazione Mirko Giacoppo, che si occuperà dei resoconti delle partite di APOEL Nicosia, Copenaghen e Everton.

Comunicato dalla redazione

La redazione de Lo Stretto del Calcio presenta la nuova struttura del blog e il format applicato per la nuova stagione.

Fari su Copenaghen: Odense-Copenaghen

Il resoconto del match Odense-Copenaghen, conclusosi con la vittoria degli ospiti per 1 a 0

Fari su Liverpool: Everton-Chelsea

L'appassionato resoconto della pirotecnica vittoria del Chelsea sui Toffees per 6 a 3

sabato 27 luglio 2013

Liverpool, nella sua rivoluzione vuole anche Suarez. (Ma se parte…)


Non solo in Italia le società stanno puntando molto sui giovani, non solo in Italia si deve rispettare il fair play finanziario, non solo in Italia i tifosi per ora più sofferenti per le loro squadre, che in un tempo anche recente erano sul tetto d’Europa (Inter e Milan), devono essere pazienti e speranzosi nei confronti della società. Un esempio, infatti, ne è il Liverpool. La società dell’americano Tom Werner sta vuole attuare una vera e propria rivoluzione della squadra, anche se comporta mandare via giocatori che hanno fatto la storia recente del Liverpool come Kuyt, Reina, Carragher, per citare i primi. La società dà fiducia a Brendan Rodgers e ad un progetto che nel giro di qualche anno potrebbe riportare la squadra tra le migliori d’Inghilterra e farle riacquistare  importanza in Europa. I primi acquisti sono l’evidente prova di tale progetto: al posto di Reina arriva Mignolet, portiere belga classe ’88, in attacco si punta sui giovani spagnoli Luis Alberto, classe ’87, e Iago Aspas, del ’92, oltre ai talenti già acquistati nelle precedenti sessioni di mercato come Coutinho, Borini, Sturridge e Joe Allen. Una squadra di prospettiva che si basa comunque su giocatori già affermati e con un grande carico di esperienza come l’eterno capitano Gerrard, Glen Johnson, Agger, Suarez e Kolo Touré, acquistato a giugno dal City.
Una delle imprese più ardue è quella di riuscire a resistere alle ingenti somme ricevute per l’acquisto di Luis Suarez. L’uruguaiano ha dichiarato di desiderare il Real Madrid, ma sembra che da parte di questi non ci sia ancora un’offerta concreta. Recentemente, invece, chi ha provato ad acquistare il fuoriclasse dei Reds è l’Arsenal con un’offerta di 46 milioni di euro. La società ha declinato, dichiarando tale cifra troppo bassa rispetto al reale valore del giocatore. In effetti Luis Suarez potrà pur essere una “testa calda” ma la sua presenza in campo si fa più che sentire, specialmente sotto porta. Del resto, un giocatore che segna 30 gol in 44 partite può farsi perdonare anche il suo carattere esuberante e i suoi, ormai numerosi, brutti episodi dentro e fuori dal campo. Nonostante si tenti di trattenere Suarez, il Liverpool si prepara comunque ad affrontare una sua eventuale cessione puntando su giocatori giovani con caratteristiche simili a quelle dell’uruguaiano. Si parla del talento brasiliano Bernard come primo obiettivo, “fresco” vincitore della Libertadores con l’Atletico Mineiro, di Eriksen, giovane talento dell’Ajax, di Yilmaz, attaccante del Galatasaray, di Soldado, attaccante del Valencia, e anche di Osvaldo, Muriel e Matri.

Intanto il Liverpool, con o senza Suarez, vuol tornare almeno in Champions League. Le speranze ci sono, i risultati raggiunti in queste ultime stagioni non sono tra i migliori, ma ciò ha permesso di migliorare ulteriormente il progetto a lungo termine che la società ha in mente. D’altronde, i tifosi Reds hanno imparato ad esser pazienti e, se attendono ancora per rivedere il Liverpool campione d’Inghilterra ormai da più di vent’anni, possono ancora tener fiducia e speranze in questa squadra che promette tanto, con o senza Luis Suarez.


(di Alessandro Triolo)

martedì 23 luglio 2013

Gli artisti del pallone: Gabriel Batistuta

Con l’arrivo di Mario Gomez alla Fiorentina, ai più nostalgici può tornare subito in mente l’immagine di un altro goleador, entrato nella storia della Viola e del calcio mondiale: Gabriel Omar Batistuta.
Quando Batistuta inizia a giocare negli Newell’s Old Boys ha due sogni: diventare importante come il suo idolo Maradona e giocare in Serie A.
Dopo una prima stagione trascorsa tra non poche difficoltà nella squadra di Rosario, Batistuta, mandato anche in prestito al Deportivo Italiano, viene acquistato dal River Plate. Dopo un buon inizio di campionato, con l’arrivo di Daniel Passarella come allenatore, Batistuta viene messo inespiegabilmente fuori rosa. A causa di ciò, il giovane attaccante argentino, anche per merito del suo procuratore Aloisio, si trasferisce al Boca Juniors, squadra in cui da sempre desiderava giocare. Nell’altra sponda di Buenos Aires Batistuta trova la giusta dimensione per affermarsi e farsi conoscere ulteriormente. Il 1991 è stato infatti un anno ricco di soddisfazioni per il “Re Leone”: con il Boca vince il campionato, di cui lui è il capocannoniere con 13 reti, in Coppa Libertadores segna 5 gol su 11 presenze, di cui due ai rivali del River Plate e, soprattutto, con la nazionale la Coppa America, di cui lui è il capocannoniere con 6 reti su 7 presenze. Il suo procuratore Settimio Aloisio gliel’aveva promesso: se avesse segnato almeno 6 volte in Coppa America gli avrebbe esaudito il desiderio di giocare in Italia, e così fu. Nell’estate del ’91 Batistuta diventa un giocatore della Fiorentina. 
A Firenze trova da parte dei tifosi un’ottima accoglienza, in campo, invece, viene spaesato da non poche difficoltà. L’allenatore brasiliano Lazaroni preferisce Dunga al bomber di Reconquista, ed anche gli altri due attaccanti viola, Branca e Borgonovo, tendono a tenerlo ai margini. Batistuta però non si lascia scoraggiare dalle prime difficoltà, resta a Firenze aspettando il suo momento. La svolta arriva il 26 febbraio del 1992, nella partita contro la Juventus. Per i tifosi viola la partita contro i bianconeri è sempre la più importante del campionato. Batistuta segna  il gol dell’1 a 0 di testa, il Franchi diventa una bolgia, Firenze si innamora del bomber argentino e diventa “Batigol”. La Fiorentina finisce il campionato dodicesima, Batistuta, invece, con 13 reti è il capocannoniere della squadra. La stagione successiva per la squadra viola è un incubo. Nonostante un’ottima campagna acquisti da parte del presidente Mario Cecchi Gori, la squadra sprofonda in Serie B. Batistuta però è sempre la nota positiva: chiude il torneo con 16 reti, affermandosi sempre più come fuoriclasse e facendo scaturire l’interesse di club importanti come il Real Madrid. L’argentino però non abbandona la Viola e, dopo la conquista della Coppa America, la seconda consecutiva, decisa in finale da una sua doppietta, Batigol è più che determinato a riportare la squadra in Serie A. Con 16 gol su 26 presenze riesce a conquistare la promozione e la convocazione in Nazionale per i Mondiali del 1994. 
Il Re Leone sta realizzando un altro dei suoi più grandi sogni: giocare al fianco di Diego Armando Maradona in Nazionale. L’esordio al Mondiale dell’Argentina è incredibile: 4-0 contro la Grecia, tripletta di Batigol e uno di Maradona. L’estasi, però, finisce quando nel ritiro della Seleccion si viene a sapere una notizia, la peggiore che si potesse ricevere: Maradona squalificato per doping. La Nazionale è scossa e ferita dalla terribile sanzione della Fifa e viene eliminata contro la Romania. Gabriel, però, riesce a dimenticare il Mondiale con un inizio travolgente. Batistuta è implacabile e mostruoso: segna per 11 giornate consecutive, un record in Serie A che ancora mantiene. La stagione ’94-’95, dunque, è quella della totale affermazione per il bomber di Reconquista: Firenze lo adora come, probabilmente, non ha mai fatto con un altro suo giocatore, gli dedica il soprannome “Re Leone”, i tifosi espongono in curva una statua che lo immortala nella sua più famosa esultanza e lui conquista il titolo di capocannoniere con 26 gol. La stagione 1995-1996 è ricca di soddisfazioni anche per la squadra Viola, che arrivano terzi in campionato. Batigol è sempre il capocannoniere della squadra, migliora sempre più la sua intesa con il tecnico Claudio Ranieri e stringe amicizia con i compagni d’attacco Rui Costa e Francesco Baiano. Nel ’96 arriva anche il primo titolo: la Coppa Italia. Firenze è in festa, al Franchi sono in quarantamila ad aspettare la squadra, e l’argentino successivamente dirà: «Sbucando dal tunnel con la Coppa in mano mi sono sentito, per un attimo, il padrone del mondo». Conquista anche la Supercoppa Italiana contro il Milan, ovviamente grazie ad una sua doppietta. La stagione successiva in campionato non è fra le migliori, la Fiorentina arriva nona. Uno dei momenti più belli, però, è la sfida contro il Barcellona nella semifinale di Coppa delle Coppe. Bati realizza uno dei suoi gol più belli davanti ai 110.000 tifosi del Camp Nou, ma non riesce comunque a conquistare la finale, anche a casua della sua assenza nella partita di ritorno. 
Con Trapattoni in panchina conclude la stagione ’97-’98 con 21 gol in 32 partite, ma la Viola non riesce a lottare per lo scudetto, nonostante il neo-allenatore lo prometta. L’anno successivo i viola concludono al primo posto il girone d'andata: Batistuta realizza 17 gol in 17 giornate e con i suoi compagni vince tutte le partite in casa e batte il Milan al San Siro per 3-1 con una sua tripletta. Il Re Leone sembra determinato a conquistare lo Scudetto, ma, all’improvviso, si infortuna. 
Batigol a Firenze poteva ricordare un binomio magnifico di circa un decennio fa, ovvero quello di Maradona con il Napoli. Così, come il Napoli dipendeva i suoi storici successi di quegli anni soprattutto al campione argentino, la Fiorentina aveva riposto le sue speranze in Batistuta. Fu così che, dopo l’infortunio del bomber di Reconquista, la Viola perde l’egemonia in campionato, vedendosi sfuggire il titolo e consolandosi solo con la qualificazione in Champions.
La stagione 1999-2000 è l’ultima con la Fiorentina, ma Batistuta continua a conquistare traguardi storici, lasciando il segno anche in Europa. La sfida più importante è Arsenal-Fiorentina, a Wembley: il bomber viola realizza il gol decisivo con una conclusione spettacolare che regala ai tifosi della fiorentina una serata indimenticabile. La Fiorentina, però, non riesce ad andare avanti in Europa ed in Serie A arriva solamente settima. Batistuta ormai ha 31 anni ma conserva ancora un sogno, un obiettivo: vincere lo Scudetto. Nell’estate del 2000, il presidente Vittorio Cecchi Gori si “arrende” davanti all’offerta della Roma: 70 miliardi di lire, l’equivalente di 36 milioni di euro. Roma vuole il tricolore e nessuno è più “affamato” di lui. Con Francesco Totti trova subito un feeling perfetto, segna 20 gol e vince, finalmente, lo Scudetto. Uno dei momenti più toccanti della cavalcata vincente della Roma di quell’anno è avvenuta il 26 novembre del 2000. La partita era Roma-Fiorentina, finita 1 a 0, con un gol di Batistuta agli ultimi minuti: l’argentino non esulta, anzi scoppia a piangere, ma, se desiderava con tanta veemenza lo Scudetto, doveva anche esser “crudele”. Batigol anche ai tifosi giallorossi ha regalato innumerevoli gioie: dal gol nel derby, alla tripletta contro il Brescia , fino ai due gol contro il Parma, tappe fondamentali per la conquista dello Scudetto. Dalla stagione successiva in poi Batistuta non tornerà mai più il fuoriclasse di cui ormai l’Italia si era innamorata: segna 6 gol su 23 presenze in campionato, torturato dagli infortuni. 
Nel gennaio del 2003 Batistuta, ormai nella fase “calante” della sua splendida carriera, si trasferisce all’Inter. Ormai, però, il Re Leone non riesce più ad incidere: segna con i nerazzurri solo 2 gol su 12 presenze.
Dopo dodici anni Batistuta decide di lasciare l’Italia per chiudere la sua carriera nel ricco Qatar. In un campionato di gran lunga inferiore come quello riesce a segnare 25 gol su 18 presenze in campionato, diventandone il capocannoniere. Nel 2005 colleziona solo 3 presenze senza mai andare a segno, annunciando anche il suo ritiro.

Adesso Batistuta è storia: ogni qual volta in Italia arriva un attaccante, un “goleador”, deve ricordarsi che prima di lui c’è stato qualcuno che per decenni ha fatto sognare ed esultare intere piazze a suon di gol. Specialmente per chi arriva alla Viola, il ricordo di Batigol è inossidabile: nessuno probabilmente sarà più amato di lui, e nessuno probabilmente è mai stato amato quanto lui. Come a Napoli c’è il “sacro” Maradona, a Firenze e, in parte, a Roma c’è Batistuta, il Re Leone. E in Argentina è addirittura arrivato a superare il suo grande mito Maradona, almeno nelle statistiche: è lui il miglior realizzatore di tutti i tempi dell’Argentina.
Batigol quindi è riuscito a conquistare ciò che più bramava da ragazzino, forse mancano solo maggiori soddisfazioni con la Seleccion, ma poco importa. Quando si parla di Batistuta non si ricordano le conquiste sul campo, i trofei vinti, ma i gol, spesso splendidi, spesso da attaccante in grado di segnare dovunque e a tutti: viene ricordato da Wembley, fino al Camp Nou e a San Siro, anche se per lui e per i veri nostalgici i gol più belli e memorabili sono sempre quelli realizzati nella “sua” casa: l’Artemio Franchi di Firenze.


(di Alessandro Triolo)

venerdì 19 luglio 2013

Da Damiao a Bueno: le italiane puntano sui sudamericani.

In questa sessione di mercato, di trasferimenti importanti e clamorosi ce ne sono già stati: Cavani al PSG, Gomez alla Fiorentina, Jovetic e Negredo al City, Villa all’Atletico Madrid, Tevez alla Juventus. A giudicare dai primi sei nomi da me citati, che forse sono davvero i più importanti delle ultime settimane di mercato, è chiaro che gli attaccanti siano da sempre stati coloro che portano maggiore entusiasmo, “scaldando” il calciomercato e scatenandone fantasie che perdurano fino alla fine di agosto.
Proprio riguardo gli attaccanti, è sempre più evidente come le squadre italiane puntino, ormai da anni, su quelli sudamericani.
La prova ad esempio è l’Inter che non smette di far aumentare in rosa la presenza di giocatori sudamericani, tanto da avere molti più argentini di italiani. In questi giorni proprio i calciatori sudamericani sono i veri protagonisti del mercato. A Napoli si aspetta Leandro Damiao, attaccante brasiliano dell’Internacional, e Julio Cesar, brasiliano ex-Inter, la Juventus ha già acquistato l’argentino Tevez e tratta per il colombiano Zuniga, l’Inter ha acquistato Campagnaro, argentino, dal Napoli, e tratta da quasi un mese con la Juventus per acquistare il cileno Isla, il Milan ha rinnovato il contratto del brasiliano Robinho, che quindi viene tolto dal mercato, la Lazio ha ormai concluso con successo la trattativa per il centrocampista argentino Lucas Biglia e la Roma punta sul giovane attaccante uruguayano Gonzalo Bueno, dal 2011 in forza al Nacional e sul brasiliano Maicon, acquistato dal Manchester City.

I giocatori sudamericani, dunque, protagonisti del mercato delle squadre di Serie A, e non solo. Gli attaccanti in dirittura di arrivo, come Damiao e Bueno, però, sono ancora delle incognite in campo europeo, poiché sarebbe la loro prima esperienza fuori dal Sudamerica. Si sa quanta differenza tattica e fisica ci possa essere fra i campionati europei e quelli brasiliani o argentini, spesso ci si trova di fronte a giocatori che in Brasile riuscivano a svettare nettamente sugli altri giocatori, a decidere da soli le partite, a scaldare interi stadi con le loro giocate da funamboli,  e che in Europa, soprattutto in un campionato come quello italiano in cui la fisicità e la tattica sono fondamentali, riescono soltanto a deludere. Proprio per tale motivo, l’ambiente di Napoli è scettico riguardo alla scelta di Damiao come sostituto di Cavani; temono di ritrovarsi nella stessa situazione affrontata già con Edu Vargas: talento secondo solo a Neymar in Brasile, ma deludente in Italia. Con Leandro Damiao, però, la storia sembra diversa; rispetto a Vargas, per fare un esempio, Damiao ha già vinto tre campionati brasiliani, una Copa Libertadores, una Recopa Sudamericana (l’equivalente della Supercoppa Europea), un argento alle Olimpiadi di Londra, di cui lui è stato il capocannoniere della competizione. Le sue caratteristiche tecniche sono la notevole forza fisica, la freddezza sotto porta e la capacità di esser rapido e reattivo anche se marcato. Sarà Leandro Damiao l’erede del grande Careca a Napoli? 
Oltre Damiao, un altro nome che ha destato l’interesse è quello di Gonzalo Bueno, praticamente acquistato dalla Roma. Personalmente ricordo che la prima volta che lo vidi giocare, in una partita di Copa Libertadores con il Nacional, il cronista disse: <<Bueno è un buon giocatore: veloce e ottimo tecnicamente, ma dovrebbe migliorare con la forza fisica per affermarsi in Europa>>. Dopo quella partita iniziai a seguire più spesso il giovane attaccante uruguayano, che, almeno personalmente, piace molto per le sue caratteristiche. 

Gonzalo Bueno possiede una duttilità nei ruoli offensivi che gli permette anche di giocare come prima punta o trequartista, nonostante il suo ruolo preferito sia quello dell’esterno offensivo, tanto da venir definito un’ala “d'altri tempi”. Alvaro Recoba ne diventa uno dei suoi primi estimatori, paragonandolo a lui stesso per le caratteristiche, aiutandolo pure ad esordire nel 2011 in prima squadra, in cui poi si guadagnerà un posto da titolare dalla stagione 2011-2012, segnando 6 gol su 22 presenze. Nella stagione 2012-2103 ‘El Zorrito’ Bueno compie notevoli ed ulteriori progressi, attirando su di se l’attenzione delle grandi società d’Europa. Molte società desiderano il giocatore, ma la Roma riesce a battere la concorrenza. Un’ennesima scommessa da vincere per la squadra di Garcia e Sabatini, che concederanno al giovane uruguayano un’importantissima possibilità per svettare sul palcoscenico della Serie A. ‘El Zorrito’ non teme la concorrenza con giovani talenti come Lamela e Destro, ma forse il fatto di non poter sbagliare, di mostrare le grandi capacità che possiede, di non essere l’ennesimo giocatore deludente in Europa, arrivato come un fenomeno dal Sudamerica. 

(di Alessandro Triolo)

mercoledì 17 luglio 2013

Lo United del dopo Ferguson: comincia l’era Moyes.

Non sarà certo facile sobbarcarsi l’eredità forse più pesante della storia del calcio, ma essere stati designati proprio dall’allenatore uscente dà una certa tranquillità al lavoro del successore in questione. E’ stato cosi per David Moyes, neo coach dei Red Devils, che, potremmo dire, è stato “nominato” dallo stesso Sir Alex Ferguson mentre si apprestava a calpestare per le sue ultime volte il terreno del theatre of dreams, l’Old Trafford, la sua casa per 26 anni. Moyes, scozzese anch’egli, si è detto onorato di poter iniziare questa avventura, non tanto preoccupato, in quanto sa di avere a disposizione una rosa praticamente completa e già competitiva a livello europeo ed internazionale.
In fin dei conti, Moyes non ha materialmente vinto alcun trofeo nella sua carriera di allenatore, ma certamente sarà stato il carattere proprio della sua persona e anche le idee di gioco cosi vicine alle sue a convincere Sir Alex: nei 12 anni trascorsi alla guida dell’Everton, che, dopo aver salvato dalla retrocessione nel 2003, ha portato in Champions League nel 2005 e in finale di FA Cup nel 2009, Moyes ha dimostrato di saper variare spesso modulo di gioco, con un’attenzione particolare verso il gioco sulle fasce (e quindi le verticalizzazioni degli esterni) e un fraseggio rapido dettato da un regista puro; tattiche che si avvicinano dunque a quelle adottate nei suoi lunghi anni di permanenza a Manchester da Ferguson.
L’era Moyes è iniziata ufficialmente il 13 luglio scorso, quando lo United ha incontrato nello stadio di Bangkok, in Thailandia, una rappresentativa thailandese: risultato finale di 1-0 per i padroni di casa. Dunque non un inizio che si può definire brillante, ma sicuramente c’è da sottolineare il diverso livello di preparazione delle due squadre: sappiamo infatti come verso questo punto dell’anno le squadre europee appaiano sempre affaticate o, per meglio dire, un po’ “sulle gambe”. Per altro, il Manchester è sceso in campo con una formazione puramente sperimentale, in cui spiccano moltissimi giovani. Come infatti riporta il sito Goal.com, Moyes ha dichiarato di essere rimasto molto colpito dalle prestazioni in particolare dei due calciatori esordienti Wilfried Zaha e Adnan Januzaj, l’uno perché “ha dato un passo diverso”, l’altro perché “è stato un vantaggio”. 
La strada è quindi ancora lunga per David Moyes, che sicuramente mirerà a non far rimpiangere Ferguson, pur essendo un’impresa abbastanza ardua da portare a termine, ma già il nuovo allenatore scozzese si mostra, al pari del suo predecessore, un fautore dei giovani.

(di Jacopo Burgio)

lunedì 15 luglio 2013

Gli artisti del pallone: Antonio Cassano

Polemiche ed occasioni perse, di Antonio Cassano si conosce molto questo lato, ma bisognerebbe iniziare a parlare di lui partendo dal campo: Cassano è un talento puro, agile, dal dribbling facile e capace di servire i compagni con assist millimetrici; non è un bomber, non ha la pretesa di segnare, ma si diverte a dare il pallone sui piedi dell’attaccante di turno che si lancia verso la porta. 
La storia di questo giocatore parte dalla sua Bari Vecchia: con la maglia biancorossa dimostrò presto di meritarsi grandi palcoscenici. Dell’esperienza con la squadra della città natale si ricorda in particolare il famoso gol contro l’Inter, che, oltre ad essere spettacolare per controllo di palla e finalizzazione, risultò essere decisivo per le sorti della partita, terminata col punteggio di 2-1 ai danni dei neroazzurri. Ad appena 19 anni viene trasferito alla Roma, dove resterà per quasi cinque stagioni. Sono annate di luci per il campione barese, che conquista la Supercoppa italiana nel 2001 e realizza 52 reti in 161 gare disputate, ma anche di ombre, in quanto conclude nel peggiore dei modi il suo rapporto sia con la società che con i compagni, in particolare con la bandiera giallorossa Francesco Totti: Cassano rifiuta infatti il rinnovo di contratto nel 2006 e si trasferirà successivamente al Real Madrid. 
Come già precedentemente detto, Cassano si è messo in luce nella sua carriera non soltanto per il grande talento che indubbiamente possiede, ma anche per atteggiamenti discutibili, tendenzialmente adottati però fuori dal campo. Tali atteggiamenti hanno assunto una linea così ben definita da meritarsi una vera e propria sopranominazione, che anche oggi conosciamo bene: sono ormai famose le “cassanate”. Antonio infatti ha dimostrato di avere un carattere molto particolare ed esuberante: una volta spezzò una bandierina del calcio d’angolo, un’altra fece gesti irrisori nei confronti dell’arbitro, un’altra ancora litigò pesantemente col presidente della sua allora squadra Sampdoria, ed infine, un fatto abbastanza recente, pronunciò parole offensive nei confronti degli omosessuali durante una conferenza stampa ad Euro 2012. Per la sua scarsa disciplina Cassano può essere paragonato ad un altro calciatore che ben conosciamo, Mario Balotelli, per il quale varrebbe lo stesso titolo dato a questo articolo: indiscusso come calciatore, discusso come uomo. Ecco perché circolavano dubbi quando Prandelli scelse come tandem d’attacco della nazionale agli europei dello scorso anno proprio la coppia Cassano-Balotelli; molti si chiedevano infatti come lo spogliatoio potesse reggere un mix del genere, eppure i due si dimostrarono tutto sommato all’altezza della situazione. Inutile elencare i grandissimi meriti di entrambi nel portare l’Italia in finale, soprattutto dopo una schiacciante vittoria contro la Germania, in cui furono in particolare protagonisti.
L’esperienza spagnola di Cassano passò quasi del tutto inosservata: pochi gol, ancora di meno quelli decisivi e qualche buona prestazione. Fu invece con la Sampdoria che Antonio si consacrò definitivamente: 41 gol in 115 presenze, pure non essendo un attaccante di razza. Con la guida di Del Neri, la Sampdoria di Cassano, che allora formava la famosa “coppia del gol” con Giampaolo Pazzini, raggiunse anche i preliminari Champions League, poi miseramente persi contro il Werder Brema.

Dopo la già citata lite con Garrone, Cassano andò al Milan dopo aver aspettato il termine utile per la risoluzione contrattuale. Seguirono prestazioni ad alto livello per due stagioni con la maglia rossonera, macchiate dal malore che Antonio accusò nel 2011 e che si rivelò essere un problema al cuore, per cui fu necessario un intervento, poi per fortuna perfettamente riuscito. 
Durante la famosa sessione di calciomercato in cui la presidenza del Milan, dopo l’addio delle bandiere storiche del club, decise di privarsi di Ibrahimovic e Thiago Silva, Cassano accusò un altro malore, stavolta non fisico: il cosiddetto “mal di pancia”, in seguito al quale il giocatore preferì essere ceduto. Venne cosi formalizzato lo scambio con l’Inter fra “FantAntonio” e, nemmeno a farlo apposta, Pazzini, suo ex compagno ai tempi della Sampdoria. 
L’esperienza di Cassano all’Inter fu anch’essa scandita dagli infortuni, in particolare nella parte finale della stagione. Nonostante ciò, Cassano realizza con la maglia neroazzurra 15 assist e 9 gol, pur perdendo il posto in nazionale, dovuto all’arrivo di nuovi giovani da monitorare e a cui concedere maggiore esperienza. 
Pochi giorni fa, Cassano ha firmato un contratto con la sua nuova squadra, il Parma, senza lasciarsi sfuggire le solite parole al veleno riguardo la sua precedente squadra: se prima aveva accusato Galliani di essere “tutto fumo e niente arrosto”, adesso accusa il neo mister dell’Inter di averlo cacciato dalla squadra. In ogni caso, Cassano dovrà cercare di impegnarsi al massimo per riconquistare la maglia azzurra nei mondiali del 2014: che ci riesca o no, il Parma ha comunque arricchito con un grande campione in maniera notevole la sua rosa, per altro già abbastanza competitiva. 
Cassano spera ancora vivamente di partecipare al mondiale in Brasile del 2014, dopo quello del 2010,  forse miglior anno della sua carriera, negatogli da Lippi. Le speranze a Parma sono tante, Cassano dovrà mostrare nuovamente le sue qualità tecniche e, soprattutto, umane. Il "numero 99" vuol tornare protagonista in una piazza meno importante delle ultime due in cui è stato, vuol tornare il Cassano "genio e sregolatezza".


(di Jacopo Burgio)

venerdì 12 luglio 2013

Napoli, si può vincere anche senza Cavani?

A Napoli i tifosi si erano ormai abituati da qualche anno ad affrontare la nuova stagione con ottimismo, con la certezza che quella squadra era seconda solo al “sacro” Napoli di Maradona.
Con Mazzarri gli azzurri arrivano in Champions dopo più di vent’anni e diventano la seconda potenza del campionato italiano. I tifosi napoletani, come la società, e tutto l’ambiente che circonda la squadra azzurra, aveva delle certezze che non potevano assolutamente non far sognare in grande. Con un allenatore come Mazzarri, che aveva “costruito” un’ottima squadra basata su un unico modulo e con un trio offensivo di altissima qualità.
Nell’estate 2012 il PSG, con l’insediamento della nuova ricchissima società, decide di acquistare Lavezzi, idolo indiscusso del Napoli, che l’aveva “scoperto” e mostrato a tutto il mondo le sue grandi qualità. Quando una squadra ricca come quella parigina decide di acquistare un calciatore a cui è interessata, poche sono le possibilità che il diretto interessato e la società rifiutino l’offerta. Napoli dà l’addio al “pocho”, ma non crescono improvvisamente le incertezze, né si è perso l’entusiasmo che la tifoseria azzurra ha sempre avuto. Potevano ancora contare su un allenatore come Mazzarri, su Insigne, uno dei miglior talenti Under 21 in Europa, su Hamsik e soprattutto su Edinson Cavani.
Dopo quest’ultima stagione, il Napoli ha la certezza di essere la seconda forza del campionato, l’anti-Juve per eccellenza, è in Champions League e sogna il tricolore.
Si poteva dire, dunque, che anche per quest’estate i tifosi napoletani potevano solo sperare e credere nelle conquiste della futura stagione. Tutto l’ambiente azzurro, però, sapeva ormai con certezza che il Napoli non sarebbe stato più alla guida di Mazzarri e, soprattutto, sapeva che le migliori squadre d’Europa erano interessate a Cavani, legato al Napoli da una clausola di 63 milioni.
A Napoli arriva alla guida della squadra Benitez, a cui sembra venir riposta fiducia da tutto l’ambiente. Un’altra buona mossa da parte della società di De Laurentiis. Nel mese di giugno, però, arrivano le prime offerte ufficiali a Cavani: ci prova il Chelsea, ma l’offerta, che include pure l’arrivo di Fernando Torres in azzurro, non raggiunge i 63 milioni. Cavani ammette di sognare il Real Madrid, nonostante non arrivino offerte concrete dalla società spagnola, e i tifosi napoletani iniziano ad essere diffidenti con il “matador”. A fine giugno a Napoli tutti avevano capito che Cavani non sarebbe stato ancora un giocatore del Napoli. I tifosi, i media, la società inizia a pensare a chi potrebbe prendere quella pesante eredità in attacco, nonostante ancora il giocatore uruguayano non abbia trovato un accordo concreto con alcuna squadra. Nella prima settimana di luglio arriva l’offerta: 64 milioni per Cavani, da parte del PSG; manca solo l’annuncio ufficiale, ma è tutto concluso: andrà a giocare a Parigi.
Il Napoli allora pensa al post-Cavani: Damiao sembra l’ipotesi più concreta, Dzeko è il preferito, ma è difficile che il City lo venda, Mario Gomez è della Fiorentina e Jovetic sembra esser destinato al Manchester City o alla Juventus, forte è l’interesse anche per Jackson Martinez, ma anche quest’ultimo sembra difficile da portare in azzurro. In conclusione: la società di De Laurentiis punta su Leandro Damiao, in forza all’Internacional. 
La squadra intanto continua a rinforzarsi in tutti i settori: acquista Mertens, ala sinistra dal PSV, Callejon, dal Real Madrid, in cui è riuscito spesso a prendere il posto di Ozil e Di Maria ed il giovane portiere Rafael dal Santos. Si tratta anche per Julio Cesar, qualora De Sanctis andasse alla Roma, N’Koulou o Rami per la difesa. Il modulo scelto da Benitez è il 4-2-3-1, un totale cambiamento rispetto a quello di Walter Mazzarri.
Il nuovo allenatore, il nuovo modulo, l’addio di Cavani, il futuro attaccante, una posizione fra le migliori in Italia da mantenere, una Champions da affrontare: tante sono le incertezze nell’ambiente azzurro, ma tanto è l’entusiasmo e l’attaccamento alla squadra, tipico dei tifosi del Napoli.

Benitez ha circa due mesi per far cambiare il Napoli, per far dimenticare Cavani e, magari, per far effettuare il salto di qualità, che forse ancora manca alla squadra, per riportare il tricolore. Riuscirà in tutto ciò?

(di Alessandro Triolo)

mercoledì 10 luglio 2013

Roma, cosa (non) è andato bene.

Con la sconfitta contro la Lazio in Coppa Italia, i tifosi romanisti  hanno iniziato a manifestare il loro dissenso e avversione verso l'attuale società della Roma.

La Roma fatica enormemente a conseguire risultati importanti da un paio d’anni, questo è ormai assodato. Se è possibile parlare di crisi, essa sarebbe stata eventualmente una conseguenza di scelte non tanto sbagliate, quanto azzardate, prese dalla società giallorossa. Nelle ultime stagioni la Roma ha fatto delle vere e proprie scommesse, soprattutto in ambito di allenatori. In primis ricordiamo il quasi esordiente Luis Enrique: un’attrattiva per chi ama il “tiki-taca” spagnolo, in quanto egli è stato alla guida del Barcelona B, non altro che la famosa “cantera” da cui i blaugrana hanno e continuano a sfornare i loro futuri campioni. Effettivamente la Roma ha fatto vedere sprazzi di buon gioco con lo spagnolo, che ha anche lanciato giovani importanti, come Lamela e Borini. La squadra però, a differenza del Barcellona, ha dimostrato di avere nella difesa il suo vero punto debole; la differenza sostanziale sta nei giocatori schierati: Daniel Alves, Abidal, Puyol e Piqué non sono di certo paragonabili a José Angel, Heinze, Kjaer e Taddei, con tutto il rispetto e la stima per questi ultimi. Lo stesso problema si è ripresentato quando poco meno di un anno fa Zdenek Zeman ha riavuto la panchina della Roma, già occupata dal 1997 al 1999. Il gioco del boemo è ben conosciuto in Italia: 4-3-3, squadra votata all’attacco, gioco spettacolare, veloce e ricco di verticalizzazioni, ma scarsa attenzione per la difesa, che viene tenuta molto alta, cono il rischio di contropiedi pericolosi. Ecco quindi che il ds Baldini provvede nella ricerca di nuovi rinforzi per il reparto difensivo, al fine di renderlo più solido: arrivano Castan, Marquinhos, Dodò, Piris, Balzaretti e rientra dall’infortunio Burdisso. Il problema sembra essere risolto, ma il corso del campionato testimonia che non è cosi. Zeman viene infatti esonerato dopo l’ennesimo risultato deludente verso metà-fine stagione e al suo posto si insedia il vice Andreazzoli, che riesce a riportare nell’ambiente della capitale serenità non tanto quanto risultati: Roma sesta e senza Europa, per di più sconfitta in finale di Coppa Italia dalla rivale cittadina Lazio.
La Roma si avvia adesso a voltare per l’ennesima volta pagina: da poche settimane è stato infatti ufficializzato l’arrivo di Rudi Garcia, il nuovo allenatore francese ex Lille, famoso per il suo grande bagaglio d’esperienza in patria. Ai tifosi giallorossi non resta dunque che sperare in una scommessa, finalmente, vinta.

(di Jacopo Burgio)

sabato 6 luglio 2013

2004-2013: Dejan Stankovic e il suo addio all'Inter.

Era il gennaio del 2004 quando Dejan Stankovic arrivò all’Inter. Già dal '98 militava nel campionato italiano con la Lazio. Dopo esser stato anche conteso dalla Juventus, Stankovic trova all’Inter il neo-allenatore Roberto Mancini, che già aveva avuto alla Lazio. Il serbo contribuisce nella sua prima stagione con 14 partite e 4 gol alla qualificazione in Champions League.

Stankovic è sempre stato un centrocampista molto duttile: può essere utilizzato sia in centrocampo sia come trequartista, come mediano e anche come centrocampista laterale. Soprattutto dalla stagione 2006-2007 il serbo venne utilizzato il più delle volte come trequartista, fino al 2009, quando Mourinho preferì un giocatore con caratteristiche diverse da quelle di Stankovic per il suo 4-2-3-1. Con l’arrivo di Sneijder, dunque, Stankovic torna in centrocampo al fianco di Cambiasso e Thiago Motta e diventa uno dei principali artefici per la conquista del Triplete nerazzurro.
Il 2011 di Stankovic probabilmente è stato l’ultimo anno in cui il serbo a continuato a rendere ad alti livelli, rientrando ottimamente sia negli schemi di Benitez che in quelli di Leonardo. Sempre nel 2011 segna anche un gol da centrocampo contro lo Schalke 04, premiato come migliore di quella Champions League. Dopo le 40 presenze della stagione precedente, in quella 2011-2012 arriva a quota 25, senza mai segnare e subendo spesso infortuni, anche gravi. Nove anni dopo il suo esordio con l'Inter, sempre a febbraio, Stankovic torna in campo, dopo più di nove mesi, contro il Chievo Verona. Tutto lo stadio non può che applaudire e ringraziare il serbo, come se fosse già il congedo di ciò che tutti avevano già percepito.
Oggi, infatti, 6 giugno 2013, Dejan Stankovic annuncia il suo addio all’Inter con una lettera, pubblicata sul sito della squadra, di cui riportiamo interamente il testo:

Carissimi tifosi nerazzurri, vi parla il vostro Drago con grande emozione e grande piacere. Non so se troverò le parole giuste per salutarvi e ringraziarvi per tutto quello che mi avete dato, a partire dall'affetto, dalla fiducia e dalla sincerità. Sono stati i dieci anni più importanti della mia vita. Anni in cui sono cresciuto prima come uomo e poi, con mio grandissimo piacere, come calciatore. Io e la mia famiglia ringraziamo la famiglia Moratti. Ci tengo a nominare il mio Presidente in particolare, che mi ha dato l'opportunità di vestire la maglia dell'Inter, con la quale ho avuto il piacere ed il grande onore prima di tutto di indossarla e poi di vincere ogni cosa che c'era da vincere. Ci sono tantissime persone con le quali sono stato benissimo e con questa lettera li voglio salutare tutti, sempre con queste parole, guardandovi negli occhi, voglio dirvi che rimarrete nel mio cuore per sempre anche se non posso e non voglio nominarvi tutti. Non dimenticherò mai il giorno in cui sono arrivato, e non potrò mai dimenticare la presentazione con il nostro Presidente onorario Giacinto Facchetti, una grandissima persona sotto tutti gi aspetti. La foto di quel giorno la tengo stretta fra i miei ricordi più cari. Quel giorno è cominciata la mia vita da nerazzurro. Se penso che non indosserò più la maglia dell'Inter mi vengono le lacrime, ma sono stato sempre sincero e le mie sono lacrime vere, purtroppo nella vita si deve andare e guardare avanti, voi che mi conoscete sapete che lo farò con grande orgoglio e grande determinazione, come ho sempre cercato di fare nella mia storia di uomo e di atleta. In tutti questi anni a Milano ho giocato con grandissimi calciatori e soprattutto con grandissimi uomini, è difficile trovare le parole per ringraziare di nuovo tutti. Ho avuto l'onore di indossare questi colori che rimarranno per sempre sulla mia pelle, non lo potrò mai cancellare, nessuno potrà mai cancellarlo.
Con tutto il mio amore. Dejan Stankovic”.

Stankovic in Nazionale, invece, ha raggiunto le 102 presenze, record che condivide con Savo Milosevic. Raggiunto questo traguardo, il serbo annunciò il suo ritiro dalla Nazionale serba. La Serbia, però, ha voluto premiare un giocatore come Stankovic organizzando un’amichevole, che si disputerà in Agosto, in suo onore, affinchè conquisti la 103° presenza e diventi il giocatore con più presenze in assoluto.
La carriera del “drago”, così chiamato dai tifosi, non si conclude però con l’addio all’Inter e alla Nazionale; tutti si augurano di rivederlo ancora giocare, di rivedere le sue ottime capacità balistiche e, soprattutto, di dare un ottimo esempio alle “giovani leve” del calcio.


(di Alessandro Triolo) 

giovedì 4 luglio 2013

L’Italia del futuro: scopriamo i nostri giovani

L'Italia U-21 arrivata seconda all'Europeo
Purtroppo in questi ultimi anni il campionato italiano, da sempre elogiato come prestigioso e difficile, in cui si misurano veri campioni, sta mettendo a repentaglio la sua ottima fama a causa di uno scarso sfruttamento dei giovani a disposizione, che, si badi, sono tanti e talentuosi. Si comprende meglio, dunque, come siano potuti partire giocatori ormai affermati, come Mario Balotelli, adesso tornato in patria grazie all’investimento (se pur oneroso e non coerente  ad un momento di crisi come questo) del Milan, o che si stanno ancora affermando, come Fabio Borini e  Marco Verratti.
Bisogna che l’Italia volga a proprio favore la già citata crisi attuale, che rappresenta da un lato un’ottima opportunità per il nostro campionato: invece di investire inutilmente quantità sconsiderate di capitale alla ricerca di campioni oggettivamente  non alla portata delle casse delle società italiane (attualmente solo la Juventus può permettersi tale tipo di acquisti), sarebbe utile guardare al futuro, come sta per esempio facendo il Milan: basti pensare a due tasselli inamovibili dell’attuale nazionale come De Sciglio ed El Shaarawy, che poco più di un anno fa giocavano rispettivamente nella primavera rossonera e in Serie B. Poche sono però le squadre che hanno avviato questo “progetto giovani”: abbandonare vecchie bandiere e vecchi senatori e costruire una squadra di giovani, come, appunto, fece il Milan l’anno scorso.
Un’ulteriore conferma del fatto che in Italia le risorse non mancano ma non vengono sfruttate è l’impresa quasi sfiorata dagli azzurrini di Devis Mangia, arrivati in finale contro la solita Spagna all’Europeo Under 21 di quest’anno in Israele. La maggior parte dei giovani allenati da Mangia gioca in Serie B o è in situazioni di comproprietà, eccezion  fatta per i già citati Borini, attaccante del Liverpool e Verratti, centrocampista del PSG, per Giulio Donati, ex primavera dell’Inter e da pochi giorni nuovo difensore del Bayer Leverkusen, e per la stella Insigne, che sembra essere il futuro tassello del Napoli di Rafa Benitez probabilmente orfano di Cavani. Alla prima categoria appartengono i portieri Bardi e Colombi, i difensori Biraghi, Capuano e Bianchetti e i centrocampisti Rossi e Crimi; alla seconda invece il portiere Leali, i difensori Caldirola e Regini e l’attaccante Gabbiadini. Abbiamo poi giocatori come Marrone, Florenzi, Bertolacci, Immobile, Destro, Sansone e Paloschi che militano sì in Serie A ma non hanno un posto “fisso”.
L’auspicio è che questi giovani talenti possano essere valorizzati quanto devono dalle rispettive società, che, sicuramente, considerata la grande dose di talento di cui stiamo trattando, ne trarranno non pochi giovamenti.

(di Jacopo Burgio)

martedì 2 luglio 2013

Confederation Cup: verdetto finale

Siamo giunti alla fine del torneo che classicamente si svolge l’anno prima del mondiale FIFA e che riunisce tutte le Nazionali vincitrici delle rispettive competizioni di confederazione, cui si aggiungono la vincitrice della precedente coppa del mondo e la squadra ospitante. Quest’anno, in vista del mondiale FIFA che si svolgerà in Brasile, il paese sudamericano ha dunque ospitato questa competizione, che, pur non essendo di primaria importanza se paragonata ad europeo o mondiale, ha creato non pochi problemi al popolo brasiliano. Si sono susseguiti infatti scontri e manifestazioni, tutto in nome di una spesa sconsiderata e superflua che il Brasile ha deciso di sostenere ospitando in successione Confederation Cup, Mondiale e Olimpiadi. 
Al di là delle vicende generate da questa competizione, siamo ormai arrivati all’attesa finale e, bisogna dirlo, si respira una certa sorpresa. Brasile e Spagna si sono affrontate alle 24 (ore italiane) nel grande teatro del Maracanà e il sogno di un possibile triplete spagnolo, con una serie incredibile di vittorie che avrebbero permesso alle furie rosse di mettere in bacheca tutti e tre i trofei nazionali (mondiale, europeo e confederation), senza dimenticare l’europeo del 2008, è scoppiato come una bolla di sapone ad opera della compagine di Scolari, ricca di giocatori talentuosi dotati di classe sopraffina, come Neymar e Oscar, e anche determinanti nei momenti migliori, come il riscoperto centroavanti Fred. I verdeoro hanno cosi conquistato con un netto 3-0 la loro terza Confederations Cup consecutiva, affermandosi come campioni incontrastati in questa competizione.
Nel pomeriggio si è anche disputata la finale per il terzo e quarto posto, in cui Uruguay e Italia si sono battute sorprendentemente fino alla fine, terminando i tempi regolamentari con un parziale di 2-2. Ai rigori, questa volta, dopo la sconfitta con la Spagna, hanno avuto la meglio gli uomini di Cesare Prandelli, che in partita avevano dimostrato nuovamente di saper soffrire (si ricordi la partita con il Giappone) e anche di saper gestire la partita. La vittoria dagli 11 metri è arrivata soprattutto grazie all’ottima prestazione del nostro portiere Gianluigi Buffon, che con le sue 3 parate ha sfatato il “tabù” dei rigori, in quanto era stato criticato più volte dopo i 2 gol arrivati dal dischetto nella fase a girone e quelli contro la Spagna.

(di Jacopo Burgio)

lunedì 1 luglio 2013

Gli artisti del pallone: Johan Cruijff


Capelli lunghi stile anni ’60-‘70, fisico asciutto ed un talento innato verso il calcio. Di questo sport aveva una visione utopica la cui "bellezza" poteva essere esaltata grazie alle sue idee rivoluzionarie. Gli anni in cui Johan Cruijff ha esordito sono quelli delle proteste, delle rivoluzioni, dei Beatles e dei Rolling Stones, di George Best che dominava la scena del calcio con la sua immagine da calciatore-divo. I famosi moti rivoluzionari del Sessantotto in Olanda iniziarono già nel ’65, ed anche lì ebbero una notevole influenza sui giovani del tempo. Uno di questi era Cruijff, che non poteva "capitare" in un periodo migliore per attuare la sua “rivoluzione” nel mondo del calcio. A 17 anni esordisce con l’Ajax, con il numero 14 che porterà per tutta la carriera. La squadra, però, sembra non essere pronta per ambire a grandi traguardi, serve una rivoluzione anche all’interno della squadra. Così, dopo un anno e mezzo con Buchingham, Cruijff trova colui con cui attuerà, e completerà, la sua opera rivoluzionaria del calcio: all’Ajax viene nominato allenatore Rinus Michels. Mai vi fu una combinazione così perfetta come Cruijff e Michels, entrambi condividevano il sogno di cambiare il modo di giocare a calcio, di riuscire a "sublimarlo" e sapevano di farcela. In cinque anni riuscirono a conquistare l’egemonia in Olanda, vincendo per quattro volte il titolo, in Europa si dovettero fermare solo a causa del Milan nella finale di Coppa dei Campioni del 1969. Nel ’71 arriva a Wembley contro il Panathinaikos la prima vittoria in Champions League, nel ’72 la seconda contro l’Inter e nel ’73 contro la Juventus; l’Ajax ormai dominava incontrastata in Europa e nel mondo grazie al più grande talento e al miglior allenatore di quel decennio, e forse del secolo. 
Nel ’73 Cruijff aveva già conquistato due Palloni d’Oro, il primo nel ’71, ma la gloria era appena iniziata: il suo calcio doveva ancor di più mettersi in mostra e raggiungere l’apice della sua importanza e bellezza, affinchè non potesse esser dimenticato e, appunto, cambiasse il modo di giocare a calcio. Nel 1974 c’era l’occasione di Barcellona, in cui già da un anno c’era al comando Michels, e soprattutto del Mondiale nella Germania-Ovest. Il Mondiale non era solo l’occasione di far dominare l’Olanda nel mondo, ma di affermare e sublimare il suo calcio totale per sempre. La squadra Orange demolì tutte le sue avversarie con il suo calcio totale, da allora chiamato "Total Football". Questo tipo di gioco è determinato da una capacità di dominare il gioco con pressing, tecnica, velocità, tattiche e schemi del tutto innovativi ed efficaci per quel periodo. L’ “Arancia Meccanica” di Cruijff arriva in finale contro i padroni di casa, non riuscendo però a conquistare la vittoria. La coppa sarebbe stato solo il premio di ciò che fecero, mai come nel caso del mondiale del ’74 infatti viene ricordata più la seconda piuttosto che la vincitrice. 
Johan Cruijff , dunque, c’era riuscito: era entrato nella storia del calcio, l’aveva rivoluzionato, si era dimostrato il migliore in assoluto di quel periodo e forse della storia, con il terzo Pallone D’Oro in 4 anni, aveva mostrato al mondo il meraviglioso Total Football.
Dal 1974 Cruijff e Michels entrano a far parte anche della storia del Barcellona riconquistando dopo 14 anni di astinenza il titolo di campione di Spagna. 
Dopo aver rinunciato nel 1978, per prudenza, al Mondiale a causa di un rapimento a Barcellona ai suoi danni, firma, a 32 anni, per il LA Aztecs, militante nel campionato americano, guidato da Rinus Michels. Nel 1984 decide di ritirarsi dal calcio giocato. Le sue ambizioni e le sue idee però devono ancora compiersi sotto un altro ruolo. Così 200 giorni dopo il suo ritiro, diventa allenatore dell’Ajax, conquistando dopo 14 anni di astinenza in Europa, un titolo europeo: la Coppa delle Coppe. Come ha fatto nella sua carriera da calciatore, nel 1988 Cruijff va a sedersi sulla panchina del Barcellona. Come è suo solito, mette in atto una vera e propria rivoluzione all’interno della squadra, facendo cedere più di una decina di giocatori per riutilizzare il guadagno riacavato nell’acquisto di altri che rispecchiavano il progetto che aveva in mente. Sotto la sua guida la squadra blaugrana diventa il "Dream Team" del calcio, dopo aver vinto per quattro volte la Liga, una Coppa del Re, una Coppa delle Coppe ed una Champions League nel 1992. Era riuscito nuovamente a conquistare il palcoscenico del calcio mondiale, da assoluto protagonista, come è suo solito fare. Cruijff adesso ha smesso di allenare nonostante continui a commentare con opinioni e critiche, spesso pungenti, l’attuale situazione del calcio mondiale. Proprio questa ultimamente è stata dominata negli ultimi anni dal Barcellona e dalla Nazionale spagnola, entrambe “figlie” del Total Football, così come lo è stato il Milan di Sacchi,a sua volta ispiratore dell'attuale gioco del Borussia Dortmund, ad esempio. Se oggi, dunque, godiamo di un bel calcio, innovativo ed efficace come quello del Barça di Messi e Guardiola, lo dobbiamo anche al genio di Johan Cruijff, che ha fatto della sua utopia una meravigliosa realtà. 
Cruijff con Guardiola, suo "successore" del Total Football

(di Alessandro Triolo)